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Anno 1 - n.1 - Dicembre 2000

   

  La fede e la cultura del presepe napoletano del XVII secolo.   

 

n una città, dove la costanza di applicarsi allo stesso tema, certo, non era di casa ; tra il finire del seicento e il primo ventennio dell’ottocento, si manifestò un fenomeno anomalo,  un avvenimento senza altri riscontri nella storia di questo popolo. In un crescendo di espressione e qualità formale, che toccò l’apice tra il terzo e quarto ventennio del XVIII secolo, i napoletani di tutte le estrazioni sociali, allestivano presepi. E là, dove le condizioni economiche e l’impegno culturale esisteva, vennero costruiti complessi di tale interesse e pregio artistico, da essere riferiti dalle cronache del tempo, e annotati negli scritti dei viaggiatori stranieri che visitarono Napoli nel ‘700.
Perché tanta perseveranza ? Perché la rappresentazione plastica di questo evento religioso, messa in opera in tutto il mondo cattolico, si radicò e fiorì per un si lungo tempo ? Iniziamo col dire che questa costanza poteva sussistere e continuare solo se la spinta, la forza scatenante era genuina, e quale stimolo se non la fede, poteva esserne il vero impulso ?
La partecipazione alla nascita del Sacro Bambino era di tale intensità e così profondamente sentita che il desiderio di testimoniarne il momento metteva da parte l’ordine temporale degli eventi, ne sconvolgeva la logica, e non esitava a rappresentare " Il Mistero" nell’attualità della propria epoca, nel familiare paesaggio, tra la gente conosciuta e che si riconosceva nelle piccole figure vestite a festa, nel sogno diventato materia, nella visione globale di apparente realtà. Quale altra energia esisteva, per apportare nel presepe tanta verità ? quale potenza fiancheggiava la fede ?
Analizzando attentamente il tempo e l’ambiente dove gli eventi andavano a maturarsi, è utile ricordare che cresceva nell’uomo del ‘700 una sete di conoscenza, una autonomia di pensiero, una libertà di espressione, una curiosità di indagare la natura e la personalità dei propri simili.
Quindi, allo scenario rococò, condizionato dalle classi dominanti (stato, clero, e nobiltà), andava ad opporsi un segno ben diverso : il credo della borghesia. E stranamente, questa ostinazione a dissipare le tenebre, trovava a Napoli, nel fare i grandi presepi,  terreno adatto alla semina. Come?
Certamente senza consapevolezza, inconsciamente, comunque quanto una possibile occasione di liberare la propria creatività, nel dare dimensione ad un magistero plastico teso alla rappresentazione del vero, minuziosamente descritto sia nelle vedute ispirate al reale, che in quelle di fantasia ; in complessità di paesaggi e di edifici restituiti con le loro vicende di piani, spigoli, di scorci; in una cronaca dell’ambiente resa con impeccabile verosimiglianza prospettica, allo scopo di stimolarne la spazialità. E i documenti atti ad avvalorare questa tesi esistono, sono le cronache e i manoscritti redatti nel ‘700. Sebbene di autori di diverse nazionalità, scritte nell’arco di cent’anni, con pareri ora lusinghieri ora denigratori (del presepe napoletano come genere); tutte le lettere hanno un denominatore comune: condividono il giudizio positivo di bontà, e resa ottica delle prospettive. Pareri che a rileggerli hanno un chiaro e inequivocabile riferimento diretto alle manifestazioni figurative del secolo.
Il presepe risentiva fortemente il "movimento del pensiero che tende a far chiaro", e nel quadro profondamente innovativo che andava sempre più affermandosi, volgeva la sua attenzione alla natura, e alla rappresentazione del vero, partecipando a stagioni immediate e documentarie, per valorizzare le realtà attuali sentite come parti integranti di un complesso mondo spirituale, cui l’artista partecipava direttamente.
E infatti, non a caso, il regista, il direttore del presepe era, quasi sempre, un borghese pittore o architetto ; comunque una personalità di cultura permeata dalla luce del secolo. Lume che, nell’ambiente napoletano, risultava opportunamente temperato da una salda coscienza storica e religiosa.
L’opera presepiale, nella sua complessità, non esauriva con la crescente attenzione verso il paesaggio, con la valorizzazione del reale, e con al cronaca di attualità, il suo contributo al movimento illuminista; vi aderiva ulteriormente con il più concreto e imponente catalogo plastico dell’epoca: dai prodotti della terra e del mare nostro (proposti in cera e terracotta policromata), ai manufatti, ai gioielli, agli strumenti musicali, alle armi, ed agli attrezzi della quotidianità (riprodotti in scala, nei materiali e nelle essenze originali); tutti degni di gareggiare, per la loro sterminata e completa tipologia, con le curiosità dell’Enciclopedia di Dideròt e D’Alembert, data alle stampe dal 1751.
Anche l’animalistica , resa in palpitanti modelli anatomici, spingeva la sua indagine a particolari momenti di vita e costituiva per quantità di specie e varietà di razze, una completa raccolta zoologica di animali domestici, arricchita ulteriormente da una vasta rappresentanza di bestie esotiche.