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Anno 6 - n.3 - Settembre - Dicembre 2006
 
 

QUANNO NASCETTE NINNO

 

     
                              Il cantico di Natale di S.Alfonso Maria de’ Liguori
                                    

                                   QUANNO NASCETTE NINNO




Quanno nascette Ninno a Bettlemme
Era nott' e pareva miezo juorno.
Maje le Stelle - lustre e belle
Se vedetteno accossí:
E a cchiú lucente
Jett'a chíamma’ li Magge all'Uriente.

Doveva essere veramente ispirato il Santo Vescovo, nel comporre la versione in napoletano del suo celebre canto natalizio “Tu scendi dalle stelle”. “Quanno nascette Ninno” mostra vivacità, intima adesione all’eccezionalità dell’avvenimento (la nascita, sulla terra e nella storia, di Dio che si fa uomo!), una felicissima invenzione linguistica che dà forma ad una gioia spontanea: in una parola, è davvero “poesia”. “Quando il Bimbo nacque a Betlehem, era notte eppure sembrava mezzogiorno”. “Ninno”, o nella forma del diminutivo-vezzeggiativo “nennillo”, è il termine con cui, nella Napoli di una volta, si indicava il bambino; spesso era addirittura usato al posto del nome. L’uso di questa voce popolare manifesta la struggente tenerezza con cui Sant’Alfonso contempla il Bimbo divino nella mangiatoia. Il Mistero del Verbo incarnato invera tutte le nascite e ad ogni uomo promette la Rinascita Eterna. È
la Luce che risplende nelle Tenebre e trasforma la notte nello splendore del mezzogiorno. E poiché tutta la Natura è chiamata a partecipare di quest’indicibile gioia, nel fulgore pieno del giorno, senza contraddizione brillano anche le stelle, la cui vista non fu mai così luminosa. “La più lucente delle stelle andò a chiamare i Magi in Oriente”. E sembra, la stella cometa, una delle donne del vicolo che corre in fretta a dare ai vicini la bella notizia che il Bambino è nato. Non si sa se Sant’Alfonso abbia composto anche la musica, festosa nel ritmo pastorale; ma riesce difficile credere che la piena adesione al Mistero dell’Incarnazione non abbia dettato al Santo, letterato, musicista e Dottore, insieme alle parole anche le note di questo gioioso canto natalizio.
Diamo di seguito l’intero testo, con una nostra versione in italiano, la quale, dobbiamo francamente confessarlo, non riesce a rendere i valori fonici e semantici del testo. Per esempio, nella terza strofa o ffieno sicco e tuosto rende già con i suoni la durezza dell’erba inaridita, la quale miracolosamente riacquista la sua freschezza a quel contatto e “di nuovo ha figli”: se 'nfigliulette, letteralmente “fu pregna, concepì i figli”; in napoletano è una sola parola di cinque sillabe, cui conferisce delicatezza la palatale al centro. La palatale ritorna in sciure “fiori” che, assieme al diminutivo frunnelle, “piccole fronde”, esprime il miracolo della natura che rinasce a nuova vita, quando il suo Creatore viene a farsi Creatura.
Nella quarta strofa, particolarmente significativo è il paragone del Bambinello con un grappolo d’uva, che ci richiama agli antichi miti delle culture mediterranee: già Dioniso, già Adone, ma anche Osiride, Attis, ed altre divinità della Natura, con la Natura erano nati, avevano patito ed erano morti per poi risorgere, a primavera, con la Natura stessa. Ma queste vicissitudini costituiscono un ciclo continuo e necessario, nel quale la personalità del dio sfuma nella vicenda naturalistica: la nascita di Gesù avviene, al contrario, per un libero atto d’amore e costituisce un evento storico, di cui gli Evangelisti si preoccupano di dare le coordinate temporali, collocandolo al tempo di Augusto e di Erode nomi ben conosciuti. E non è, Gesù, uno dei tanti dei della Natura: è il Dio che ha creato la Natura. Preciseranno poi i Padri e i Dottori della Chiesa (e Sant’Alfonso è uno di loro) che Gesù è il Verbo attraverso cui il mondo fu creato: e il Verbo si fece carne.
 

KAI O LOGOS SARX EGENETO
 

ET VERBVM CARO FACTVM EST

La nascita del Dio fatto Uomo, per un po’ almeno, riporta per la Natura quello che fu l’idillio del Paradiso terrestre e per le tradizioni pagane l’ “età dell’oro”. La IV Bucolica di Virgilio concorre con la profezia di Isaia alla formazione di questa immagine di serenità e di pace universale.
Le strofe dalla sei alla dieci narrano, secondo il racconto del Vangelo, l’annuncio degli Angeli ai pastori, che accolgono con gioia la lieta novella (si ricordi che è proprio questo il significato della parola Evangelo). Questi rappresentanti di un’umanità umile, buona ed operosa prontamente accorrono sul luogo della Divina Nascita.
L’adorazione del Bambino è narrata da Sant’Alfonso secondo quella che può essere l’immaginazione popolare. A un certo punto (strofa sedicesima), l’Autore prende la parola in prima persona per riferire il canto che la Madonna, gli Angeli e i pastori intonano per cullare il sonno del Bambino Gesù: le quattro strofe che compongono la ninna nanna erano cantate su una melodia tipica delle ninne nanne popolari.
Segue la parte più propriamente morale, di allocuzione al popolo, che è invitato a seguire l’esempio dei pastori e a recarsi al presepe con nel cuore il pentimento per i peccati commessi, con i quali mal si ripaga quel Dio che, per amore, ha voluto farsi Uomo e Bimbo. L’esempio è offerto dal bue e dall’asinello, i due umili animali che riconoscono, adagiato nel fieno, il loro Signore. Cognovit bos possessorem suum et asinus praesepe domini sui: il bue riconosce il suo padrone e l’asino la greppia del suo signore, secondo la profezia di Isaia.
Belle, nel testo, alcune parole dell’antico dialetto napoletano: ‘ncocciuse, letteralmente, “incocciati”, “di coccio”, “cocciuti”; spurteglione, pipistrello, dal latino vespertilio, -onis, “l’animale che esce al vespro”, con l’oscurità (a scura = all’oscuro). Nel Vangelo di Giovanni, le tenebre non accolgono la Luce: et Lux in tenebris lucet et tenebrae eam non comprehenderunt = la Luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’anno voluta ricevere, secondo l’interpretazione corrente).
Nelle ultime strofe si sviluppa il contrasto tenebre/Luce: il peccatore è nero come la pece, ma, se si pente, può ricondurlo all’antico splendore la misericordia di Dio, che è il vero Sole. L’ultima preghiera è rivolta alla Madonna, la quale, accettando di essere la Madre di Dio che si fa Uomo, ha pure accettato di essere madre dei peccatori.

Si ricordi che la data del 25 dicembre era per i Romani la festa del dio Sole, dopo il pericolo dell’estinzione della luce, corso dall’universo nei giorni che precedono il solstizio d’inverno. Scegliendo proprio quel giorno come data della nascita di Gesù, la Chiesa primitiva volle ribadire che l’unico vero Sole, di cui l’astro diurno è solo una pallida immagine, è Gesù Cristo. Il Cristianesimo non rinnegò, ma si adoperò ad inverare gli antichi simboli: anche l’addensarsi di feste di santi, in maniera diversa legati alla luce, come Santa Lucia (13 dicembre) e Sant’Agnello (14 dicembre) alludono alla pericolosità dei giorni solstiziali. Al presepe napoletano è sotteso, come abbiamo più volte provato ad illustrare nelle nostre pagine, lo scontro, che fu anche incontro, della sensibilità cosiddetta “pagana” e di quella, più profonda e perciò destinata a prevalere, che è la nostra sensibilità cristiana.

 


 

De pressa se scetajeno l'aucielle
Cantanno de ‘na forma tutta nova:
Pe ‘nsí l’agrille – co’ li strille,
E zombanno a ccà e a llà:
È nato, è nato,
Decevano, lo Dio, che nci'à criato
 
Subito si svegliarono gli uccelli e
cantarono in maniera completamente nuova; 
persino i grilli, con i loro versi,
e saltellando qua e là, dicevano:
È nato, è  nato 
il Dio che ci ha creato
Co’ tutto ch'era vierno, Ninno bello,
Nascetteno a migliara rose e sciure.
Pe'nsí o ffieno sicco e tuosto
Che fuje puosto - sott'a Te,
Se 'nfigliulette,
E de frunnelle e sciure se vestette.
Nonostante fosse inverno, o bel Bambino, a migliaia nacquero rose e fiori.
Persino il fieno, inaridito e duro,
quando fu posto sotto di Te,
rifiorì
e si rivestì di foglioline e fiori
A ‘no paese che se chiamma Ngadde,
Sciurettero le bigne e ascette l'uva.
Ninno mio sapuritiello,
Rappusciello - d'uva sí Tu;
Ca tutt'amore
Faje doce ‘a vocca, e po’ mbriache ‘o core.
In un paese che si chiama Engaddi
fiorirono le viti e spuntò l’uva.
Bimbo mio, così saporito,
tu sei un grappoletto d’uva:
perché, tutto amore,
rendi dolce la bocca e inebrii il cuore.
Non c'erano nemmice pe’ la terra,
La pecora pasceva co’ lione;
Co’ e’ caprette - se vedette
‘O liupardo pazzea’;
L'urzo e ‘o vitiello
E co’ lo lupo 'npace ‘o pecoriello.
 
Non vi erano nemici sulla terra;
la pecora pascolava con il leone.
Si vide il leopardo
giocare con le caprette.
Ci fu pace tra orso e vitello
e tra lupo e agnello.
Se rrevotaje nsomma tutt'o Munno,
Lu cielo, ‘a terra, ‘o mare, e tutt'i gente.
Chi dormeva - se senteva
Mpiett'o core pazzea’
Pe la priezza;
E se sonnava pace e contentezza.
Insomma, tutto il mondo fu scombussolato:
il cielo, la terra, il mare e tutta la gente.
Chi dormiva si sentiva
il cuore balzargli in petto
per la felicità
e sognava pace e gioia.
Guardavano le ppecore i Pasturi,
E ‘n'Angelo sbrannente cchiú d’ ‘o sole
Comparette - e le dicette:
No ve spaventate no;
Contento e riso
La terra è arreventata Paraviso.
I pastori erano a guardia delle greggi
e un Angelo, splendente più del sole
apparve e disse loro:
- No, non temete.
C’è felicità e riso:
la terra è divenuta Paradiso.
A buie è nato ogge a Bettlemme
D' ‘o Munno l'aspettato Sarvatore.
Dint'i panni’ o trovarrite,
Nu potite - maje sgarra’,
Arravugliato,
E dinto a lo Presebio curcato.
Oggi in Betlemme è nato
l’atteso Salvatore del mondo.
Lo troverete, non potete sbagliarvi,
avvolto nelle fasce
e adagiato nella mangiatoia –
A meliune l'Angiule calare
Co’ chiste se mettetten' a cantare:
Gloria a Dio, pace in terra,
Nu cchiú guerra - è nato già
Lo Rre d'ammore,
Che dà priezza e pace a ogni core.
A milioni calarono dal cielo gli Angeli
e insieme al primo si misero a cantare:
- Gloria a Dio, pace in terra:
non più guerra, è ormai nato
il Re di Amore
che ad ogni cuore dà contentezza e pace.
Sbatteva ‘o core mpietto a ssí Pasture;
E l'uno 'nfaccia all'auto diceva:
Che tardammo? - Priesto, jammo,
Ca mme sento scevoli’
Pe’ lo golío
Che tengo de vedé’ sso Ninno Dio.
A questi pastori il cuore batteva in petto e l’uno diceva all’altro: - Perché aspettiamo? Presto, andiamo che mi sento impazzire per il desiderio che ho di vedere questo Bimbo Dio.-
Zombanno, comm'a ciereve ferute,
Correttero i Pasture a la Capanna;
Là trovajeno Maria
Co’ Gíuseppe e a Gioia mia;
E 'n chillo Viso
Provajeno ‘no muorzo 'e Paraviso.
Saltando come cervi feriti, i pastori corsero alla capanna; lì trovarono Giuseppe con Maria e con la mia Gioia e in quel viso ebbero un assaggio del Paradiso.
Restajeno ‘ncantate e boccapierte
Pe’ tanto tiempo senza di’ parola;
Po’ jettanno - lacremanno
Nu suspiro pe’ sfoca’,
Da dint' ‘o core
Cacciajeno a migliara atte d'ammore.
 
Restarono incantati a boccaperta, per lungo tempo, senza dir parola. Poi, gettando, in lacrime, un sospiro per dare sfogo (ai loro sentimenti). Dal profondo del cuore manifestarono con mille gesti il loro amore.
Co’ a scusa de donare li presiente
Se jetteno azzeccanno chiano chiano.
Ninno no li refiutaje,
L'azzettaje - comm'a ddi’,
Ca lle mettette
Le Mmane ‘ncapo e li benedicette.
 
Con la scusa di fargli i loro doni andarono accostandosi piano piano; il Bimbo non rifiutò i loro doni, li accettò, (mostrando il gradimento) con il porre la mano sul loro capo e li benedisse.
Piglianno confedenzia a poco a poco,
Cercajeno licenzia a la Mamma:
Se mangiajeno li Pedille
Coi vasille - mprimmo, e po’
Chelle Manelle,
All'urtemo lo Musso e i Mascarielle.
 
Prendendo confidenza un po’ alla volta, chiesero il permesso alla Mamma: a furia di baci, si mangiarono prima i piedini, poi quelle manine ed infine il visetto e il ganascino.
Po’ assieme se mettetteno a sonare
E a canta’ cu l'Angiule e Maria,
Co’ na voce - accossí doce,
Che Gesú facette: a aa...
E po’ chiudette
Chill'uocchie aggraziate e s'addormette.
 
Poi presero a suonare e a cantare con gli Angeli e con Maria, con una voce così dolce che Gesù sbadiglio, quindi chiuse gli occhi graziosi e si addormentò.
La nonna che cantajeno mme pare
Ch'avette ‘a esse chesta che mo’ dico.
Ma ‘nfrattanto - io la canto,
Mmacenateve de sta’
Co li Pasture
Vecino a Ninno bello vuje pure.
Mi sembra che la ninna nanna era più o meno quella che adesso vi dico: ma mentre che io la canto, immaginatevi di stare anche voi, insieme ai Pastori, accanto al mio bel bambino.
Viene suonno da lo Cielo,
Viene e adduorme ‘sso Nennillo;
Pe pietà, ca è peccerillo,
Viene suonno e non tarda’.
Gioia bella de sto core,
Vorria suonno arreventare,
Vieni, sonno, giù dal cielo, vieni e addormenta questo Bambinello, per pietà, perché è piccolino, vieni sonno, non tardare. Gioia bella di questo cuore, vorrei diventare sonno, per farti addormentare dolcemente questi begli occhi.
Doce, doce pe’ te fare
‘Ss'uocchíe bell'addormenta’.
Ma si Tu p'esser'amato
Te sí fatto Bammeníello,
Sulo ammore è o sonnaríello
Che dormire te pò fa’.
Ma se Tu, per essere amato, ti sei Bambinello, solo amore è quel dolce sonnellino che può farti dormire.
Ment'è chesto può fa nonna,
Pe Te st'arma è arza e bona.
T'amo, t'a’... Uh sta canzona
Già t'ha fatto addobea’!
T'amo Dio - Bello mio,
T'amo Gíoja, t'amo, t'a’...
 
Se è così, puoi fare la nanna, per Te quest’anima è bell’e arsa. Ti amo, ti amo… o! questo canto già ti ha fatto appisolare. Ti amo, Dio, bello mio, gioia mia, Ti amo, Ti amo.
Cantanno po’ e sonanno li Pasture
Tornajeno a le mantre nata vota:
Ma che buo’ ca cchíú arrecietto
Non trovajeno int'a lu pietto:
A ‘o caro Bene
Facevan' ogni poco ‘o va e biene.
Cantando e suonando, poi, i pastori tornarono nuovamente alle loro greggi. Ma che vuoi farci, essi non trovavano più requie nel loro petto. E per il loro caro Bene facevano ogni tanto il va e vieni.
Lo ‘nfierno sulamente e i peccature
‘Ncoccíuse comm'a isso e ostinate
Se mettetteno appaura,
Pecchè a scura - vonno sta’
Li spurteglíune,
Fujenno da lo sole li briccune.
 
Solo l’inferno e i peccatori, che sono, come l’inferno, testardi e ostinati, ebbero paura, poiché nelle tenebre vogliono stare i pipistrelli, fuggendo, i bricconi, dalla luce del sole.
Io pure songo niro peccatore,
Ma non boglio esse cuoccio e ostinato.
Io non boglio cchiú peccare,
Voglio amare - voglio sta’
Co’ Nínno bello
Comme nce sta lo voje e l'aseniello.
 
Anche io sono nero peccatore, ma non voglio essere testardo ed ostinato; non voglio più peccare; voglio amare, voglio stare con il Bimbo bello, come ci stanno il bue e l’asinello.
Nennillo mio, Tu sí sole d'ammore,
Faje luce e scarfe pure ‘o peccatore
Quanno è tutto - níro e brutto
Comm'a pece, tanno cchiú
Lo tiene mente,
E ‘o faje arreventa’ bello e sbrannente.

Bambino mio, Tu sei sole d’amore, illumini e riscaldi anche il peccatore: quando è tutto nero e brutto come la pece, tanto più tu lo guardi e lo fai diventare bello e splendente.
Ma Tu mme diciarraje ca chiagniste,
Accíò chiagnesse pure ‘o peccatore.
Aggio tuorto - haje fosse muorto
N'ora primmo de pecca’!
Tu m'aje amato,
E io pe’ paga’ t'aggio maltrattato!
 
Ma tu mi dirai che piangesti affinché piangesse pure il peccatore. Ho torto, ahi! Fossi io morto un’ora prima di peccare! Tu mi hai amato e io, per ripagarti, Ti ho maltrattato (peccando).
A buje, uocchie mieje, doje fontane
Avrite a fa’ de lagreme chiagnenno
Pe’ llavare – pe’ scarfare
Li pedilli di Gesù;
Chi sa, pracato,
Decesse: Via, ca t'aggio perdonato.
 
E voi, occhi miei, dovete diventare due fontane di lacrime, piangendo, per lavare, per riscaldare, i piedini di Gesù: chi sa mai che, placato, dicesse: - Suvvia, ti ho perdonato!
Viato me si aggio sta fortuna!
Che maje pozzo cchiú desiderare?
O Maria - Speranza mia,
Ment'io chiango, prega Tu:
Penza ca pure
Si fatta Mamma de li peccature.
 
Beato me, se ho questa fortuna! Che mai altro posso desiderare? O Maria, speranza mia, mentre io piango, Tu prega: pensa che sei divenuta madre anche dei peccatori.