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Anno3 - n.6 - Dicembre 2003
 

IL COLLEZIONISMO: AMORE O MANIA?

Dico subito che il collezionismo in sé non va né scoraggiato né, tanto meno, condannato: esso, infatti, esprime l’amore per un certo campo dell’umano operare, del quale si vogliono raccogliere il maggior numero possibile di documenti: il sogno di ogni collezionista è quello di raggiungere la totalità della documentazione. Il collezionismo è quindi promotore di raccolte complete di materiali che contribuiscono all’elaborazione della storia. Attraverso una raccolta, poniamo quella dei francobolli, è possibile delineare l’evoluzione di quello strumento essenziale per la comunicazione a distanza che è stata e continua ad essere la posta. Una raccolta di “pastori” di terracotta documenta l’evolversi (e talvolta il decadere) del gusto e delle tecniche degli artigiani nelle varie epoche. Il presepe “colto” del Settecento, con i “pastori” vestiti, con le minuterie, con la scrupolosa raffigurazione di scene di vita campestre e popolare, ci conserva il ricordo di strumenti, di oggetti dell’uso quotidiano, di usanze varie, ricordo che altrimenti rischierebbe di andare perduto. La maggior parte dei musei nasce dalla passione antiquaria e collezionistica del passato (il Museo Nazionale di Napoli, per esempio, nasce attorno alla raccolta Farnese).
Detto questo, si deve passare all’aspetto deteriore del collezionismo, quando questo si trasformi nel desiderio di possesso fine a se stesso: vi è in ciò insito un pericolo per l’oggetto, per il collezionista e, spesso, per la società.
Porto un esempio traendolo dal campo che mi è più vicino, a causa della mia professione: la passione per il libro, strumento fondamentale della conservazione e della trasmissione del sapere, tecnicamente si dice “bibliofilia”. Naturalmente, del libro si ama tutto: il contenuto, ovviamente, ma anche il tipo di carta, perché questo è di vitale importanza per la leggibilità e la durata del libro stesso. I libri stampati su carta di stracci resistono all’usura e agli accidenti molto meglio della carta di cellulosa, introdotta all’inizio dell’Ottocento: se un libro del Seicento o del Settecento vi cade nell’acqua, lo recuperate senza difficoltà, mentre lo stesso incidente è fatale ai libri stampati dopo l’introduzione della carta di cellulosa. La rilegatura, poi, è importante sia per la preservazione del libro, sia per un’agevole lettura: quando la rilegatura è scadente, tutti ne abbiamo fatto esperienza, gli sforzi per tenere aperto il libro impediscono al lettore la concentrazione sul testo. Come si vede, ho parlato di pregi “estetici” che sono anche pregi “funzionali”; la bellezza non è fine a se stessa, ma anche tramite per un migliore godimento del contenuto.
Ma tutto questo può diventare oggetto di una vera e propria mania: il bibliofilo che si trasforma in bibliomane ha paura di maneggiare i propri libri; per non sciuparli non ne volta le pagine, vale a dire non li legge; talvolta, perché il libro non perda il proprio valore di mercato, lo lascia intonso, con le pagine unite com’è uscito dal tipografo; vi sono di quelli che non liberano i libri neanche dall’involucro in cui erano protetti al momento della vendita. Questo “amore del libro” diventa allora “mortificazione del libro”, nel senso etimologico della parola: “mortificare”, cioè “rendere morto”; morto e mummificato.
E’ chiaro che un desiderio siffatto, il quale non ha rispetto per l’oggetto del proprio amore, diventa pericoloso dal punto di vista sociale, quando, pur di soddisfarlo, si è pronti ad infrangere norme e divieti fino al crimine vero e proprio; i collezionisti maniaci sono propensi ad acquistare oggetti dalla provenienza incerta, quando non sono essi stessi a commissionare furti ai danni di Musei, Biblioteche e privati.
Il collezionismo di stampe giunge fino alla distruzione del libro, poiché librai di pochi scrupoli preferiscono vendere le illustrazioni separatamente, per realizzare un guadagno maggiore. A chi vuole approfondire questo aspetto, posso consigliare il volume di Miles Harvey, L’isola della mappe perdute (Milano, Rizzoli, 2001), che narra la storia della cartografia e dei furti cartografici, seguendo le orme di un audace ladro, il quale, introducendosi nelle più prestigiose biblioteche americane, asportava, a colpi di lametta da barba, mappe e carte geografiche da antichi e preziosi volumi, deturpando per sempre una documentazione a volte più unica che rara.
Così, i furti d’arte, cui dà impulso un collezionismo di questo tipo, distruggono la completezza della documentazione storica, impoveriscono le nostre città, i nostri musei e le nostre chiese, sottraendo al godimento pubblico le opere d’arte, per metterle a disposizione di un solo individuo, per un piacere non tanto privato, quanto solipsistico, poiché il detentore di un’opera trafugata non potrà mai esporla al pubblico, ma dovrà tenerla accuratamente celata. E questo sarebbe amore dell’arte!
Il collezionismo in questo suo aspetto deteriore è responsabile dell’aumento, a volte sproporzionato, dei prezzi di mercato e dei conseguenti crimini a questo aumento collegati.
Traendo le conclusioni di questo discorso, sul quale, amici Lettori, ci farebbe piacere conoscere il vostro pensiero, anche il collezionismo dei “pastori” corre il pericolo di trasformarsi nel senso negativo che ho cercato di chiarire.
Innanzitutto, un “pastore” è fatto per essere collocato su un presepe; può essere più o meno bello, secondo l’abilità dell’artigiano e la disponibilità economica del possessore; ma esso diventa vivo solo quando prende parte a quella fantastica rappresentazione della Natività, quando, assieme agli altri personaggi, si reca alla grotta dove è nato il Bimbo Divino o popola e anima le case, le vie, i campi del presepe. Ben triste è la sorte di quel pastore, che il suo possessore destina ad adornare una mensola o relega per sempre in una vetrina, come testimonianza di un costoso acquisto (quanto più costoso, tanto più prestigioso), nel corso di una passeggiata a San Gregorio Armeno. Il pastore è allora mortificato, reso morto, nel senso etimologico cui ho accennato.
Ho conosciuto invece un raffinato collezionista di pastori di terracotta, il quale ne possedeva troppi, perché potessero tutti trovare posto sul suo presepe. Collocati dunque i personaggi irrinunciabili (sono quelli che abbiamo descritto in un precedente articolo e la cui enumerazione ripetiamo in un’altra parte di questo stesso numero), egli poneva sul presepe, a rotazione, ora l’una ora l’altra delle figurine di terracotta, perché a nessuna di esse, diceva, fosse negata la gioia di partecipare alla sacra rappresentazione e così di acquistare vita almeno per un breve periodo.
Se poi è lo stesso artigiano a collocare il “pastore” su una base elaborata (prevedendo quindi in partenza che essa non farà mai parte di un presepe), vuol dire che qualcosa proprio non va e che bisogna cominciare a riflettere seriamente.
Mi accorgo di essere andato ben oltre lo spazio che mi ero io stesso assegnato; ma l’argomento era troppo importante per non essere affrontato. Ma anche così esso è ben lungi dall’essere esaurito, anzi credo che esso è stato appena impostato. Qualche nuova risposta ai vari interrogativi suscitati potrà scaturire dalle pagine degli altri articoli di questo stesso numero.

 
Italo Sarcone