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Anno2 - n.1 - Dicembre 2001
 

Musica e cultura nel presepe del Settecento di Eloisa Intini

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E. De Angelis "Tamburello e mandoloncello a manico lungo" Archivio della Sezione

Il presente studio vuole essere una breve riflessione sul rapporto intercorso tra gli autori dei grandi allestimenti presepiali realizzati a Napoli nel Settecento e il tessuto culturale e musicale dove essi operavano. La prima considerazione da farsi che ci viene in mente è che mentre oggi l'immagine di un personaggio nell'atto di suonare ci porta immediatamente alla realtà musicale odierna, più difficile è collegare l'iconografia presepiale al mondo musicale ad esso coevo; eppure la scena presepiale settecentesca ci appare come un gran teatro dove gli attori (i pastori) e i luoghi, ritratti in un ossessivo realismo, sono lo specchio di una Napoli indiscussa capitale europea della cultura e, in primis, della musica. Il Settecento è, per questa città, secolo d'oro per ogni manifestazione dell'arte, ma sono i capolavori musicali a darle fama imperitura: l'opera seria, o metastasiana, dall'apporto determinante del più grande poeta del Settecento, e l'opera buffa, vivida ed ironica rappresentazione della comicità napoletana, e poi cantate, oratorii, drammi sacri, serenate e varia musica strumentale. Dall'abbondanza di notizie e giornali, avvisi dell'epoca si rileva un pullulare di manifestazioni maggiori e minori, legate a feste, ricorrenze, matrimoni, compleanni, genetliaci, gravidanze, celebrazioni, vittorie e parate militari, nonché tutte le festività del calendario liturgico, del carnevale e dei santi patronali, che coinvolgono tutti gli strati della società. Questa miriade di spettacoli nascono dall'impegno costante di attivissime istituzioni, quali i quattro Conservatori, i teatri, le chiese, la Cappella reale, la Cappella del Tesoro di S. Gennaro e poi ancora gli istituti pii, le confraternite e le congregazioni, l'Annunziata e i monasteri, solo per citare i maggiori. Un prodotto d'arte, ma pur sempre alla moda, quale il presepe, non poteva certo, attraverso un filtro immaginifico, non sottintendere un fenomeno di tale portata e, accanto all'aspetto pittorico e scultoreo, la musica interessò gli artisti presepiali sotto l'aspetto organologico, cioè come costruzione degli strumenti. Gli artisti che spesso erano anche liutai, s'impegnarono con il consueto rigore filologico e realistico nella ricostruzione perfetta e miniaturistica dello strumento musicale e nei prodotti più elevati erano in grado di farli suonare. Ma, essendo il presepe una straordinaria sintesi di colto e popolare, dove la realtà ritratta è colta nell'atto del movimento, non possiamo ascoltare la musica attraverso i suoni reali, ma solo sottintenderla in una serie di accadimenti della vita ordinaria, dove il fare musica è elemento essenziale e naturale, e dove il suonatore è legato non solo alla tradizione specifica del Natale, ma rievoca spaccati di storia squisitamente napoletana e conferisce un tocco esotico in ossequio ad un'imperante moda settecentesca. A questo riguardo rileviamo dei veri e propri luoghi topici di una scena teatrale, la taverna, la tarantella, il corteo dei suonatori orientali, il gruppo della serenata, oltre i soliti zampognari sparsi nella scena dell'annuncio e della natività; e qui i pastori agiscono come attori del teatro musicale, recitando, immobili, sempre il medesimo ruolo.

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E. De Angelis "Tiorba Liuto ed Arciliuto" Archivio della Sezione

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Fulvio Guida "Mandolone" Archivio dell'Associazione Amici del Presepio

La taverna era considerata il luogo dove avventori, viaggiatori e mercanti, giocatori e soldati, studenti e perdigiorno trovavano rifugio, sollazzati e allietati dalla musica di posteggiatori e questuanti; a Napoli se ne contavano oltre cento e le più note erano quelle del "Cerriglio", del "Crispano agli Incarnati", e poi ancora il "Pontone", il "Fondaco del Cetrangolo", il "Cerriglio piccolo" e il "Cerriglio grande", tutte nella zona della Rua Catalana, tanto per citarne alcune. Ad esse faceva da cornice indispensabile ogni sorta di cibo, bevande e mercanzie alimentari che, messe in bella mostra, alimentavano la fantasia di artisti, scultori e pittori, architetti e scenografi dei grandi allestimenti presepiali. In questo tripudio vivissimo di colori, suoni e rumori, la musica non costituiva un solo corredo ma, come un contrappunto poetico, riproduceva nei testi e nel ritmo gioioso delle villanelle, questo spettacolo di abbondanza e opulenza. Ma la realtà di questi musicanti era ben diversa dallo scenario cui assistevano; emarginati da qualunque opportunità lavorativa e corporativa, bollati da prammatiche e sanzioni, costretti alla questua e alla posteggia, vivevano in uno stato di indigenza e di fame endemica, con i volti scavati e rugosi in stato di perenne rassegnazione come ben documentano i bellissimi esemplari settecenteschi di G. De Luca e di F. Celebrano. Gli strumenti musicali con cui si accompagnavano erano quelli appartenenti al costume popolare dell'Italia meridionale presenti in serenate, in gaie scampagnate e "posillipate", così chiamate le gite in barca a Posillipo, come ci testimonia Giovan Battista Valentino nel poemetto "Napole scontraffatto doppo la peste" del 1668, dove ci parla di "cetole, chitarre e tammorielle" e di "tiorbe a taccone e Colasciune", di "viole e violune". Alcuni di questi li ritroviamo nel presepe, come la tiorba a taccone, strumento a corde suonato con un'apposita penna, il taccone, e il colascione, una sorta di liuto con una piccola cassa convessa e un manico lungo da 100 cm a 200 cm, ed erano costruiti dagli artisti presepiali con estrema dovizia di particolari, utilizzando sfoglie di tartaruga con intarsi di osso, di avorio, di madreperla. Piccoli capolavori d'arte e ricercatezza che rievocano indirettamente una grande tradizione napoletana legata alla liuteria e alla costruzione delle corde tale da portare alla nascita addirittura di una corporazione di cordari.

L'altro topos teatrale della scienza presepiale è il sontuoso corteo degli Orientali, e qui il discorso si fa ricco di spunti. Il presepe settecentesco, come prodotto d'arte, si mostra sensibile a tutte le mode culturali e letterarie dell'epoca: una di queste è l'orientalismo, nato sulla scia degli scambi commerciali intrapresi con quelle terre lontane grazie soprattutto alla costituzione della Compagnia delle Indie; orientalismo che invase tutte le forme di decorazione, dagli abbigliamenti agli arredi della nobiltà napoletana (le cosiddette cineserie). Sul finire del Seicento nacque in Francia l'interesse per la musica turca come riflesso di un'attenzione per la cultura ottomana e, allo scopo di limitare i suoni e i timbri fragorosi della banda dei giannizzeri, penetrò nell'Occidente lo strumentario militare turco.

Napoli non rimase immune al fascino dell'Oriente, che pervase anche la musica e le scene dell'opera, e la riproduzione di sonorità e di armonie proprie di quei lontani paesi prese il nome di "turcherie" alle quali non fu immune neanche il teatro mozartiano. La banda dei suonatori orientali del presepe, tanto riccamente abbigliati, sembra voler far rivivere il sapore suggestivo di queste atmosfere timbriche, perché con loro l'atto di suonare si fa ancora più realistico, gli strumenti adoperati inducono ad una rappresentazione più veritiera del volto, i connotati si alterano nello sforzo dell'emissione del fiato, e le dita sono spesso collocate nella posizione dello schiacciamento dei pistoni. Questa è costituita da dieci elementi più un capobanda, a differenza di quella dei giannizzeri che annoverava ben cinquantaquattro suonatori; gli strumenti utilizzati erano tube, corni, tamburi, grancasse, in turco davul, percosse da un mazzuolo o da una spazzola, oboe dai suoni acuti e striduli, serpentoni, cimbali, in turco zil, buccine, trombe d'ottone turche dette buru e clarinetti, strumenti che ritroveremo anche nel teatro francese, in quello rossiniano e in tante orchestre sinfoniche. Daremo qualche notizia su ognuno di questi. Il serpentone era una sorta di corno dalla tipica forma ad S, di taglia grossa e di registro basso, che veniva usato come sostegno grave nelle bande militari, e fu anche adoperato nell'opera "L'assedio di Corinto" di Rossini; la buccina era una tromba militare a padiglione ricurvo; i cimbali, detti anche "piatti" erano strumenti metallici dal suono tintinnante detti a concussione o a percussione reciproca, cioè ogni mano teneva un elemento; la mezzaluna, o cappello turco, era un bastone verticale con una mezzaluna metallica e altri simboli come campanelli e sonagli; le tube erano strumenti appartenenti alla famiglia delle cornette o flicorni; alcune erano di registro grave e di forma diritta, altre più grandi erano di forma circolare, chiamate "helicon".

Ed ancora si potrebbero specificare altre caratteristiche organologiche, e l'elenco potrebbe allungarsi a dismisura, ma è importante, invece, sottolineare che la rappresentazione di questi personaggi, il rigore realistico di queste sculturine, la dovizia di particolari con cui sono trattate, sono il riflesso indiretto di un retroterra culturale vivo e presente, comune sia nelle committenze colte ed aristocratiche, sia nei realizzatori di ogni importante allestimento presepiale.

Eloisa Intini