IL PRESEPE NAPOLETANO

Il presepe nasce come rappresentazione di alcuni passi del Vangelo relativi alla venuta al mondo del Salvatore. In particolare, vi trovano spazio Il "Mistero", ovvero la nascita del Bambino, l'"Annuncio", ovvero l'apparizione di un angelo ai pastori, l'adorazione dei Magi e il "Diversorium", l'albergo dove Maria e Giuseppe avevano cercato invano riparo.

Il presepe napoletano può sembrare invece una cosa diversa. Altro non appare se non uno squarcio della Napoli del settecento. I volti, le attività, i costumi sono quelli dell'epoca, parti di una capitale affollata e variopinta.
Si fa quasi fatica a districarsi nella folla. Ma con uno sguardo più attento si possono individuare alcuni gruppi ben definiti.


Innanzitutto i protagonisti dell’ “Annuncio”, poveri pastori raggiunti dal messaggio divino della nascita del Redentore. E allora, ecco il “pastore che soffia sul fuoco”, quello “con la caprettina in mano”, Benino ( “il pastore che dorme” ), il “pastore della meraviglia” e quello “dell’adorazione”, lo “zampognaro” che suona e quello delle offerte. Così come è stato scritto, è una traduzione plastica “della Verità evangelica della Buona Novella annunciata ai poveri”.

Accanto ai pastori, i primi a ricevere l’Annuncio, il Mondo. Ecco quindi gli esotici I Re Magi in cammino per rendere omaggio al Redentore. Diverse le razze, diverse le età, diversi i simbolici doni dei tre sovrani : un simbolo dell’universalità e trasversalità della Salvezza significata della nascita del Bambino.Il presepe napoletano traduce questo messaggio usando le facce, gli abiti, gli esempi di “esotico”, che erano propri della Napoli del settecento, metropoli al centro di traffici e crocevia di mercanti e nobili viaggiatori, città popolata di schiavi medio-orientali e nordafricani. E allora il corteo dei re Magi si compone di servi, donne, palafrenieri, cavalli, cammelli ed elefanti, occasioni per mirabili esercitazioni di esotismo, in cui riecheggia il ricordo dell’epica visita degli ambasciatori tunisini a Napoli agli inizi del seicento, immortalati anche dai pennelli del Bonito.

Poco più in là il “Diversorium”, l’albergo dove l’umanità godereccia, ai limiti di una rabelaisiana fantasia, dà il destro per la rappresentazione di quanto di più squisito potesse offrirsi agli occhi di un popolano dell’epoca. Sui banchi, nei trionfi di formaggi e latticini di ogni tipo, varietà di pane meticolosamente diversificate ( “ammazzaruto”, “cuotto”, “niro”, “sereticcio”, “spagnuolo”, “francese”, etc. ) le freselle, i casatielli, i fiaschi di vino d’Ischia e Grieco, i tortani, gli agnelli squartati e pelati, i quarti di maiale e di bue.



E poi ancora le anatre uccise e appese, il castrato, i conigli, le frattaglie, il pesce in tutte le sue tipologie, gli arancini, gli struffoli, i cavolfiori, l’uva bianca e l’uva nera..... L’elenco potrebbe essere infinito, come il sogno di un popolano affamato, ma pago anche solo di rimirare queste delizie e di immaginarle sciogliersi in bocca. Intorno alle cibarie, tutta l’umanità e gli animali che avremmo potuto incontrare al mercato, sempre nella Napoli del tempo : i venditori, le massaie, le zingare che leggevano le mani tra i banchi, i giocatori di carte e di dadi, gli avventori della taverna, i cortei di cani, gatti, colombi. Ma anche vezzo esotico d’alto bordo, leoni, scimmiette e pavoni. In mezzo a questa folla indaffarata e coloratissima, il Praesepium. Un tempio, o meglio le rovine di un antico tempio. Le colonne, i resti di un frontone. Un omaggio a Pompei e a Paestum, appena ritrovate, e al gusto per le antichità classiche che allora conquistava i ceti alti, ma anche il simbolo di un paganesimo ormai in rovina, mentre si consuma il Mistero più grande mai avvenuto : la nascita di Dio. In quella scena così quotidiana ed affollata, il Mistero appare ancora di più come qualcosa di straordinario, eccezionale, fermato in un cono di luce divina. Un Miracolo, appunto: eccezionale nella sua differenza rispetto alla vita di ogni giorno, ma accessibile perché aperto alla vista e alla comprensione di chi quel quotidiano vive.

Prof.ssa Adriana Bezzi