IL PASTORE NAPOLETANO DEL'700

Una ricchissima letteratura, generosa per numero dei testi ed importanza degli Autori, ci consegna le origini, l'evoluzione, nonché le trasformazioni "ex novo", operate all'interno della tradizione napoletana del Presepe, che ha conosciuto il suo massimo splendore nel periodo che va dal tardo Barocco (di cui non perderà mai completamente le radici), cioè dalla fine del Seicento, fino ai primissimi decenni del diciannovesimo secolo.
L'impegno degli artisti, la fatica degli artigiani che contribuirono a tale produzione sono abbondantemente testimoniate in quelle pagine di Storia, spesso scritta in maniera disgiunta e solo raramente con opinioni concordanti.
"Pazzia collettiva della Napoli di quel tempo", gioco di Società, "divertissement", con il quale, nella Napoli settecentesca, in una Società frivola e "cicisbea", decadenti aristocratici ed emergenti borghesi deliziavano le loro annoiate ed oziose giornate, ben lungi dal solo immaginare gli orrori che si sarebbero succeduti con la Rivoluzione Francese. Più vicina alla realtà, invece, la definizione di "Fenomeno altalenante fra la Storia dell'Arte e quella del Costume", come ebbe a ricordare Franz Von Lobstein in un suo scritto. Più vicina, dicevo, ma ben lontana dal solo rendere l'idea di quella Napoli Borbone "Moderna e illuminata", unica vera capitale d'Italia, della quale, solo qualche decennio più tardi, a chi gliene chiedeva notizie, Wolfgang Ghoete rispondeva: "Napoli? E' Parigi! Le altre, solo delle piccole Lione!
Nel 1752 il Vanvitelli, scrivendo al fratello Urbano, definiva la costruzione del Presepe "una ragazzata", nonostante ben conoscesse il fatto che a tale attività si dedicassero scenografi, pittori, argentieri, sarti, liutai e, secondo quanto "certificato" da eminenti studiosi, grandi scultori che provvedevano a modellare i Pastori. Una scuola, invero, sicuramente fiorente, se si pensa che vi sono pezzi attribuiti a Lorenzo Vaccaro, Matteo Bottiglieri, Felice Bottiglieri, Angelo Viva, fino a Giuseppe Sanmartino, delicato creatore del suggestivo "Cristo velato", custodito nella cappella San Severo in Napoli. L'architetto olandese nato a Napoli (affermazione in questa occasione sicuramente giustificata), trovò, forse, un suo preciso limite proprio nella grandezza delle sue Opere: dall'alto dei suoi Palazzi, dei suoi Ponti e dei suoi Acquedotti non riuscì a vedere (o forse finse di non vedere, poiché nella stessa sede ed in altre alla fine "assolse" il Presepe) la Vera Arte in una cosa piccola (ma non piccola cosa) come la rappresentazione della Natività.
In verità ai non napoletani riusciva di non facile comprensione il discorso del Mistero natalizio cosi' come raccontato dal Presepe. Il cammino che l'uomo percorre e la sua meta finale non sono sicuramente oggetto dell'arte così come era intesa in quel periodo. Essa, infatti, era la rappresentazione del " Vero", ma di un "Vero" bello a tutti i costi, ben lontano dal " Falso" del corteo degli Orientali (assenti nel racconto biblico, dove, addirittura non viene indicato il numero dei Magi), almeno quanto dal "Vero" dei "pezzenti" delle "Accademie", anch'essi falsi, poiché più belli e meno maleodoranti di quelli che normalmente circolavano per le strade della Città. L'insieme di questi "bianchi e neri" (codici rigorosamente barocchi), mai assolutamente bianchi e mai "disperatamente" neri, fa sì che il Presepe napoletano, partendo da questi due semplici colori, si inerpichi sulla difficile strada della ricerca dei toni intermedi, alla guisa dei maggiori e più importanti esempi dell'arte barocca, senza però perdersi negli eccessi sovrastrutturali che limitarono la produzione di quella scuola.
Da essa, però, la separazione risultò netta rispetto ai Contenuti, che anticipano, con felici intuizioni, quelli che sarebbero stati temi propri del Romanticismo.
Va detto per altro, che i contenuti, non influenzano minimamente il giudizio dell'osservatore, che apprezzerà sempre il prodotto artistico finale del Presepe partendo dal suo personale punto di vista (qualunque esso sia) e dalla sua cultura.
A questo punto appare necessaria una digressione su quelli che furono i temi letterari e pittorici (questi ultimi più vicini alla tematica da affrontare) ai quali si ispirò e, soprattutto, quelli che la corrente artistica propria del nostro Presepe anticipò.
Aminta, favola pastorale del Tasso del 1573; "Il pastor fido" di Giovan Battista Guarini, anno 1590; questi sono i remoti antenati dei nostri "Pastori", essendolo di nome e di fatto i personaggi di queste opere. Saltando di un secolo, giungiamo al 1690, anno in cui fu fondata l'Arcadia. Protettore dell'accademia, il Buon Pastore, Gesù, e, precisamente, Gesù Bambino; "...gli arcadi così volevano avere la semplicità dei pastori greci e insieme la fede ingenua dei pastori palestinesi, che accorsero per primi alla grotta di Betlemme" (Bargellini)
Metastasio si trasferisce a Napoli per ritrovare la memoria del Tasso; qui vi lascia una traccia tanto indelebile da influenzare il nobile Alfonso Maria de' Liguori già grande avvocato del foro napoletano, prelato, insigne moralista e dottore della Chiesa, che compose più di una canzonetta di metastasiana fattura, la più memorabile tra le quali e' "Tu scendi dalle stelle", in vernacolo "Quanno nascette Ninno...".(Bargellini)
Questi temi bucolici permearono il lavoro dei presepisti del Seicento, ma essi indirizzarono la ricerca verso il rendere quanto più verosimili le situazioni suddette, operando direttamente sulle sculture: lignee, con occhi di cristallo e vestite con tessuti alla moda dell'epoca.
Ciò non bastava, ed infatti un risultato concreto rivolto al conseguimento dello scopo suddetto, si ebbe solo quando alle figure pastorali si aggiunse l'impianto scenico; quest'ultimo ispirato non già alla scultura, né alla pittura "sic et sempliciter", ma intima fusione di queste due arti: plasticità e "disegno" insieme.
L'illuminismo non entrò mai nei contenuti del Presepe in maniera "prepotente" così come aveva fatto in altri campi della Conoscenza o dell'Arte, se non, come affermato da più ed autorevoli Voci, per sottolinearne il carattere enciclopedico, ovvero, pedagogico, delle minuterie nonché degli animali, delle mercanzie. Ciò potrebbe indurre l'osservatore meno attento ad una analisi sicuramente falsa, ravvisando in siffatte soluzioni iconografiche una tendenza a porre la Conoscenza come fulcro dell'intera finzione scenica: in realtà il Presepe, con il suo significato escatologico non voleva tralasciare neanche uno degli aspetti antropologici che costituivano e costituiscono la sua quintessenza.
Sulla Pittura il discorso diventa relativamente più semplice, potendo noi demandare direttamente l'attento lettore alla visione delle Opere cui ci riferiamo. A chi corre il pensiero guardando il ritratto del Ribera "Il gusto" se non ad un verosimile avventore della "scena della taverna"? Ed il "San Francesco Saverio e San Francesco Borgia" del Luca Giordano, non si compone, forse, di quelli che sarebbero poi diventati tre importanti temi del Presepe napoletano, come, partendo dall'alto, la "Gloria degli angeli"; l' "Adorazione dei Magi", e l' "Adorazione dei pastori"; quest'ultima con due figure, "Popolana con bambino" ed un "Cacciatore" di spalle, che ci riporta la memoria a tante splendide "Accademie"? La "Cuciniera", di Bernardo Strozzi (1630), poi, sembra tratta (uccelli e pentolone compresi) direttamente dalla bottega di uno dei tanti Maestri pastorai di cui era ricco il Settecento napoletano. Il pesce della "Natura morta con pesci", opera di G. Recco, la carne de "La Macelleria", di Annibale Carracci (1585), o quella del "Bue squartato" del Rembrandt (1655), infine, farebbero bella mostra di sè nelle scene delle Osterie nei Presepi della migliore tradizione.
Le scenografie sono brillantemente "rappresentate" da Viviano Codazzi, le cui "Rovine", ad esempio, costituirebbero un ottimo "Tempio", o da Annibale Carracci, con la sua "Fuga in Egitto", da Claudio Lorenese (Paesaggio con la Ninfa Egeria etc.), e l'elenco potrebbe continuare.
Persino le "minuterie" sembrano ispirate da dipinti del Seicento, come la frutta del Caravaggio (1596) o gli strumenti musicali del Baschenis, il quale ritraeva quasi soltanto strumenti musicali.
In definitiva, il discorso del Presepe napoletano risulta essere un fenomeno molto complesso, ovvero, una complessità di fenomeni non facilmente esauribile con discorsi di carattere esegetico né con sapienti dissertazioni: è un fenomeno tutto napoletano nel quale sono confluite correnti di pensiero diverse e diverse "intelligenze"; tutte, però, quasi in armonia a conseguire un risultato "comune": affermare la Grandezza del Presepe napoletano e la sua diffusione nel mondo.
Al Pastore napoletano del Settecento vanno collegate una serie di vicende storiche, sociali ed artistiche, nonché politiche ed economiche, che lo portarono ad essere oggetto di esportazione assieme ad arazzi, pietre dure, sete ed argenti; tutti, prodotti delle Reali Fabbriche borboniche.
Le nazioni vicine al Regno di Napoli per motivi geografici, politici o dinastici, quali la Francia, l'Austria, l'Inghilterra e la Spagna, ebbero modo di apprezzare la produzione artistica lì realizzata.
Non sono sconosciute cronache dell'epoca che manifestano più o meno direttamente apprezzamenti sul valore del Presepe napoletano: si ha notizia che Filippo V, nel 1702, giunto a Napoli in occasione della presa di possesso della Città, abbia riportato in Spagna un nutrito gruppo di pastori napoletani ricevuti in dono da un tale Speruti.
In seguito alle vicende dinastiche che, in quell'epoca, coinvolsero le famiglie Borbone francesi e spagnole da una parte, e gli Asburgo dall'altra, Napoli passo' nel 1707, all'Austria, rimanendo, si, Capitale, ma di un Viceregno (che comprendeva i vecchi territori). Gli austriaci furono subito presi dal fascino del Presepe Napoletano, e, nel 1712, come informa il noto cronista dell'epoca Giuseppe Parascandalo: " ...nel presepio del Signor Nauclerio, il Conte di Daun (il Vicere' di Napoli; N.d.A.), con gran seguito venerava la culla di Gesù".
Ancora, nel 1734, la Contessa Visconti della Pieve, Viceregina d'Austria, visitò il prezioso Presepe del Principe d'Ischitella (del quale, purtroppo, ci è pervenuta solo la memoria). Le cronache di quel tempo, come dicevo, sono piene di notizie del genere: il Presepe, come vedremo in seguito, ha sempre affascinato (a volte fin troppo, come manifestano certe "sparizioni" avvenute nel corso degli anni) anche i non napoletani.
Nei Vangeli (Matteo e Luca), l'Avvento viene salutato dai pastori che accorrono alla grotta per adorare il Redentore, avvertiti dagli Angeli. Anche i Magi sono presenti nelle Scritture, che, però, non ne precisano né il numero nè i nomi (nelle varie chiese cristiane, questo varia da due a quattro. Per dovere di cronaca, i nomi Gaspare, Melchiorre e Baldassarre ci giungono direttamente dai vangeli apocrifi ). A questo punto risulta chiaro perché, nella tradizione presepiale napoletana, il termine "Pastore" assume un significato ed una valenza che accomuna le figure del Presepe: il "Nobile", il "Borghese", il "Contadino", il "Moro" al seguito dei Magi, fino ai Magi ed alla stessa Sacra Famiglia.
Il Vicereame divenne Regno nel 1734 con a capo Carlo di Borbone, figlio di Filippo V.
Non cercheremo neppure di far passare come credibile quanto affermato dai molti cronisti dell'epoca circa la "costruzione" di Pastori da parte del re Carlo (impegnato com'era a trasformare uno splendido Vicereame in un dignitoso Regno); ancor meno probabile appare l'immagine della consorte Maria Amalia che ne avrebbe cucito le vesti "con le sue regali mani".
Di sicuro, in quel periodo vi fu un grande impulso alla diffusione dell'Arte in genere e del Presepe in particolare: ci appare più verosimile che il Re tollerasse (o, addirittura, incoraggiasse) la circolazione di tali voci proprio per "garantire" una rapida diffusione della cultura del Presepiale.
Padre Rocco, domenicano e confidente del Re, ebbe un ruolo importante nella storia della diffusione di tale usanza. Non aveva né la stoffa né la potenza del Cardinale di Richelieau, ma riusciva sempre, con la forza che gli veniva dalla fede, a convincere Sua Maestà su tutte le questioni, senza, peraltro, mai invocare la Ragion di Stato.
Chiedeva, Padre Rocco, con voce alta e tonante: usava lo stesso tono col Re, con il popolo, nelle prediche, e forse, quando pregava, anche con lo stesso Signore Iddio. A lui si deve "l'invenzione" delle edicole votive.
Le Casse del Regno non potevano sopportare la spesa dell'illuminazione pubblica, ma esisteva l'esigenza di garantire ai viandanti la sicurezza nelle strade durante le ore notturne. A questo punto il buon 'Don' risolse il problema in maniera squisitamente napoletana, escogitando un sistema che sortiva un triplice effetto. Le edicole votive erano "altarini" perennemente illuminati alla cui manutenzione provvedevano pii devoti. Per tale ragione, i risultati a cui si giunse diffondendo questa usanza furono: una illuminazione senza costo alcuno per l'Amministrazione, la riduzione delle cattive azioni ai danni delle persone, che fruivano della provvidenziale protezione delle luci votive e, per ultimo ...la salvezza dell'anima dei "curatori" (o almeno così prometteva).
Padre Rocco amava il Presepe in maniera viscerale. All'approssimarsi del Natale, le sue prediche, solitamente dure e castigatrici dei costumi, incentrate sull'Amore divino, sull'osservanza dei Comandamenti e sulle punizioni destinate ai peccatori, diventavano dolci in maniera "sospetta", tutte rivolte com'erano ad esortare il popolo a costruire all'interno della proprie case una rappresentazione della Natività, altrettanto attento, però, subito dopo, a promettere fulmini e fiamme dell'Inferno a chi non lo avesse fatto. Si narra che, al ritorno nelle sua cella in San Martino, pregava la Vergine innanzi ad un "presepino" di carta.
Nel 1786 Ferdinando inviò in Spagna, coppie di Pastori modellati da Francesco Celebrano rappresentanti le vestiture delle province del Regno. Le figure furono completate da Gennaro Reale. I Pastori inviati al Monarca iberico, però, erano abbigliati con i costumi tradizionali, non quelli normalmente in uso presso la popolazione: conseguentemente, tutta la produzione che caratterizzò gli scenari dei Presepi dell'epoca, non rappresentò la realtà quotidiana di quel tempo, ma una sorta di "Festa grande" dove gli stessi personaggi raffigurati avrebbero stentato a riconoscersi. Una corrente di pensiero, invero molto ingenua, voleva che l'uso dei vestimenti tradizionali, quelli delle ricorrenze, per intenderci, stesse a significare il fatto che in un'occasione come quella dell'Avvento, il primo Natale, il popolo si vestisse in maniera eccezionale per rendere degnamente omaggio al Cristo Redentore, il tutto anche in sintonia con quanto era ad uso del Monarca, che in ogni occasione raccomandava l'eleganza, al punto che il Morelli Nicola, nella biografia di Francesco Celebrano, in riferimento ai Pastori che il re doveva inviare ai congiunti in Spagna, gli fa affermare: " Di ogni paese delle nostre province, un uomo e una donna galantemente vestiti!"
Non e' detto, pero', che la ragione "politica" di Ferdinando di Borbone, tutto teso a dimostrare al Sovrano iberico la "bontà" del suo Regno, non abbia poi ceduto il passo alla "devozione" di coloro che ritenevano gli abiti della festa dovuti all'importanza dell'avvenimento.
In quest'ultima chiave di lettura, trova giustificata motivazione anche la ricercatezza delle scelte sulla manifattura degli abiti e la meticolosità degli artigiani, che si affannavano a trovarne sempre di più belli, più raffinati ed anche di più nuovi, rispettando, però, rigorosamente i canoni del costume di cui andavano a riferirsi.
Risulta facile immaginare, alla luce di quanto riportato, come, poi, dovesse essere preciso e ricercato l'abbigliamento degli "Orientali", il popolo al Seguito dei Magi, sicuramente ispirati agli uomini al seguito degli Inviati Straordinari del Sultano e del Re di Tripoli, o quelli che erano con Haugi Hussein Effendi, inviato straordinario della Porta Ottomana in visita a Napoli. E cosi' Mauri d'Algeri, Mongoli, Turchi, Arabi, diafane Georgiane, splendide Samaritane, tutti e tutte rivestiti con fedele precisione e con tessuti ed accessori preziosi, rigorosamente ridotti in scala. Questa fusione, questo abbraccio tra Oriente ed Occidente, tra turchi e lucane, tra calabresi e georgiane, creava nell'osservatore una sensazione di intimo contatto che lo coinvolgeva direttamente; una situazione onirica sicuramente lontana dalla realtà, ma non per questo (più verosimilmente proprio per questo) meno affascinante. La scenografia classica era, di solito, composta da tre distinte soluzioni, risultanti dalla commistione di vangeli (canonici e non) e di tradizioni popolari (non sempre queste ultime rigorosamente cristiane) che rievocano: l'Annuncio ai Pastori, il Mistero o Nativita' e il Diversorium, ovvero la taverna.
Purtroppo, molte scenografie del Settecento sono andate perse, poche di esse sono giunte fino a noi intatte (solo quelle contenute nelle scarabattole), mentre, nella maggior parte dei casi, sono state rimanipolate, essendo costume dell'epoca il rifacimento delle stesse anche per adeguarle al susseguirsi degli avvenimenti, di cui il Presepe era muto testimone.
L'antica arte scenografica presepiale, però, non è andata persa: ancora oggi vi sono bravi esecutori che, slegati dai rigorosi criteri stilistici imposti dall'attualità che il fenomeno rivestiva nei rispettivi periodi, sono capaci di riprodurre, in questo o quell'altro stile, apprezzabilissime scenografie che sempre rispettano quelli che sono i canoni classici propri delle 'Scuole' che vanno a rappresentare.

Prof. Umberto Grillo

 

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