FEDE E CULTURA LAICA NEL PRESEPE NAPOLETANO DEL ‘700.

In una città, dove la costanza di applicarsi allo stesso tema, certo, non era di casa ; tra il finire del seicento e il primo ventennio dell’ottocento, si manifestò un fenomeno anomalo, un avvenimento senza altri riscontri nella storia di questo popolo. In un crescendo di espressione e qualità formale, che toccò l’apice tra il terzo e quarto ventennio del XVIII secolo, i napoletani di tutte le estrazioni sociali, allestivano presepi. E là, dove le condizioni economiche e l’impegno culturale esisteva, vennero costruiti complessi di tale interesse e pregio artistico, da essere riferiti dalle cronache del tempo, e annotati negli scritti dei viaggiatori stranieri che visitarono Napoli nel ‘700.
Perché tanta perseveranza ? Perché la rappresentazione plastica di questo evento religioso, messa in opera in tutto il mondo cattolico, si radicò e fiorì per un si lungo tempo ? Iniziamo col dire che questa costanza poteva sussistere e continuare solo se la spinta, la forza scatenante era genuina, e quale stimolo se non la fede, poteva esserne il vero impulso ?
La partecipazione alla nascita del Sacro Bambino era di tale intensità e così profondamente sentita che il desiderio di testimoniarne il momento metteva da parte l’ordine temporale degli eventi, ne sconvolgeva la logica, e non esitava a rappresentare " Il Mistero" nell’attualità della propria epoca, nel familiare paesaggio, tra la gente conosciuta e che si riconosceva nelle piccole figure vestite a festa, nel sogno diventato materia, nella visione globale di apparente realtà. Quale altra energia esisteva, per apportare nel presepe tanta verità ? quale potenza fiancheggiava la fede ?
Analizzando attentamente il tempo e l’ambiente dove gli eventi andavano a maturarsi, è utile ricordare che cresceva nell’uomo del ‘700 una sete di conoscenza, una autonomia di pensiero, una libertà di espressione, una curiosità di indagare la natura e la personalità dei propri simili.
Quindi, allo scenario rococò, condizionato dalle classi dominanti (stato, clero, e nobiltà), andava ad opporsi un segno ben diverso : il credo della borghesia. E stranamente, questa ostinazione a dissipare le tenebre, trovava a Napoli, nel fare i grandi presepi, terreno adatto alla semina. Come?
Certamente senza consapevolezza, inconsciamente, comunque quanto una possibile occasione di liberare la propria creatività, nel dare dimensione ad un magistero plastico teso alla rappresentazione del vero, minuziosamente descritto sia nelle vedute ispirate al reale, che in quelle di fantasia ; in complessità di paesaggi e di edifici restituiti con le loro vicende di piani, spigoli, di scorci; in una cronaca dell’ambiente resa con impeccabile verosimiglianza prospettica, allo scopo di stimolarne la spazialità. E i documenti atti ad avvalorare questa tesi esistono, sono le cronache e i manoscritti redatti nel ‘700. Sebbene di autori di diverse nazionalità, scritte nell’arco di cent’anni, con pareri ora lusinghieri ora denigratori (del presepe napoletano come genere); tutte le lettere hanno un denominatore comune: condividono il giudizio positivo di bontà, e resa ottica delle prospettive. Pareri che a rileggerli hanno un chiaro e inequivocabile riferimento diretto alle manifestazioni figurative del secolo.
Il presepe risentiva fortemente il "movimento del pensiero che tende a far chiaro", e nel quadro profondamente innovativo che andava sempre più affermandosi, volgeva la sua attenzione alla natura, e alla rappresentazione del vero, partecipando a stagioni immediate e documentarie, per valorizzare le realtà attuali sentite come parti integranti di un complesso mondo spirituale, cui l’artista partecipava direttamente.
E infatti, non a caso, il regista, il direttore del presepe era, quasi sempre, un borghese pittore o architetto ; comunque una personalità di cultura permeata dalla luce del secolo. Lume che, nell’ambiente napoletano, risultava opportunamente temperato da una salda coscienza storica e religiosa.
L’opera presepiale, nella sua complessità, non esauriva con la crescente attenzione verso il paesaggio, con la valorizzazione del reale, e con al cronaca di attualità, il suo contributo al movimento illuminista; vi aderiva ulteriormente con il più concreto e imponente catalogo plastico dell’epoca: dai prodotti della terra e del mare nostro (proposti in cera e terracotta policromata), ai manufatti, ai gioielli, agli strumenti musicali, alle armi, ed agli attrezzi della quotidianità (riprodotti in scala, nei materiali e nelle essenze originali); tutti degni di gareggiare, per la loro sterminata e completa tipologia, con le curiosità dell’Enciclopedia di Dideròt e D’Alembert, data alle stampe dal 1751.
Anche l’animalistica , resa in palpitanti modelli anatomici, spingeva la sua indagine a particolari momenti di vita e costituiva per quantità di specie e varietà di razze, una completa raccolta zoologica di animali domestici, arricchita ulteriormente da una vasta rappresentanza di bestie esotiche.
Nel crescendo di riflessioni verso la natura, non poteva mancare l’interesse per i valori individuali, e i sentimenti umani. Per il presepe, il più grande scultore del ‘700 napoletano, traduceva questi pregi in raffigurazioni plastiche, lasciandoci prove inequivocabili, singole opere d’arte cariche di tensioni, capaci di esprimere stati d’animo, passioni. E se i pastori di Giuseppe Sanmartino trovavano riscontro nel pensiero illuminista, non di meno questa aderenza era rilevabile nelle testine plasmate da Nicola Somma, Francesco Celebrano, Salvatore Franco e Lorenzo Mosca che, diversamente dal Maestro, volgevano la loro attenzione agli aspetti esteriori dell’uomo, allo studio della fisiognomica.
Sul volgere del secolo, il carattere illuminato andava spegnendosi, l’energia trainante si esauriva, e della macchina scenica rimaneva il ricordo; nostalgiche, successive, quanto ripetitive edizioni del passato. Le mutate condizioni politiche e sociali avevano indirettamente avviato il presepe su un percorso diverso ; ferma ai costumi e all’ambiente settecentesco, incapace di adeguarsi ai tempi, e non costituendo più l’allestimento, una profonda esigenza interiore l’opera, quel certo tipo di opera d’arte, cessava di esistere.
Il presepe napoletano del secolo d’oro, ricco di fede e di cultura laica, carico di simboli religiosi e di raffinate citazioni pittoriche, spesso confuso con altri allestimenti coevi e di fattura ottocentesca, cambiava spirito e iniziava a percorrere quella strada, quella deviazione già da tempo esistente che privilegiava il genere popolare, e la parodia. La crescita abnorme della "scena della taverna" (spettacolo dominante, centro fascinoso e ammaliatore, decisamente fuorviante la scelta del presepe) e il proliferare di figure affaccendate nel fare il proprio mestiere e vendere, vendere di tutto, tutto il pensabile e l’inimmaginabile, distoglievano l’attenzione dovuta alla "Sacra Famiglia", relegandola (delimitandone lo spazio). Questo corso diventava il favorito, e rompeva con il proprio incedere, l’unicità, la compattezza, la concettualità della grande macchina scenica, e si rivelava sempre più vicino al gusto delle masse, inclini al piacere per l’episodio, al riferimento di costume; evidenziando la mancanza di una regia sentita e motivata, capace di gestire la difficoltosa, polimaterica esistenza di paesaggi, pastori, e accessori; per mettere sempre più da parte quello che era stato il fulcro, la ragione unica di tanto allestimento: "Il Mistero"; che diventava oggettivamente, mero pretesto per tanta ostentazione.
Furono le idee giacobine dei francesi? Le rappresaglie del restaurato regno borbonico? O l’avvento di una nuova generazione di presepisti di limitata cultura e poca fede? Resta il fatto che i presepi non vennero più allestiti, e se pur vennero costruiti, avevano perduto quella marcia in più, quella spinta, che li aveva visti protagonisti nel ‘700 a Napoli.
Di questi grandi complessi non esiste nessuna immagine a ricordarli; le poche scarabattole e le campane di vetro (ancora integre del loro contenuto), non hanno per concezione e specificità d’uso, i riferimenti spaziali necessari alle macchine sceniche presepiali settecentesche. Tantomeno queste esaltazioni prospettiche sono rilevabili nel "forse" presepe Sdanghi conservato al Bayerisches National Museum di Monaco. Anche il "tardo" presepe Reale allestito nel 1844 nella Reggia di Caserta non possedeva qualità spaziali e partecipazione, come si può facilmente rilevare dalla lettura delle quattro tempere del Fergola a testimonianza ( ? ) dell’evento. La documentazione fotografica della seconda metà dell’ottocento e dell’inizio del novecento, illustra allestimenti alquanto banali, mentre risulta storicamente interessante per il paesaggio di mano dei pastori. Di segno inverso a tale iconografia, risulta infruttuosa per la ricerca di aderenze al pensiero illuminato, è il presepe Cuciniello. Messo in opera tra il 1887 e il 1889 nel Museo di San Martino (prescindendo dalle ragioni relative alla sua installazione, e il fuori tempo di almeno cento anni); credo, possa essere considerato un esempio, l’unico riferimento valido al carattere della grande stagione presepiale settecentesca. Supportano questa tesi: le ampie e ingannevoli prospettive; le scelte tipologie e i legami tra i pastori - attori; e la corale partecipazione del collettivo (ambiente e figur ), al non accantonato "Mistero".
L’opportunità di utilizzare figure presepiali vecchie di centinaia d’anni, è una discutibile operazione artistica; proprio per l’unione di due concezioni tanto distanti tra loro: i pastori, ideati e costruiti in una data epoca e sotto l’influsso di quel determinato pensiero; e la scenografia, realizzata in un momento decisamente diverso che non riflette le idee del proprio tempo, e si conforma (attuando un prodotto di maniera), a una passata, esausta corrente espressiva.
Posizione discutibile, se vista in questo momento di transizione, dove la manipolazione del componimento artistico di autori del passato è sempre più attuata, favorendo un processo che vanifica la stessa concezione storica dell’opera d’arte.
Al di la di questa o quell’altra posizione critica, esiste ugualmente la massima libertà di fare e disfare; quindi, se un collezionista vuole impiegare la sua raccolta di figure per allestire il presepe, se desidera togliere dal forzato esilio in teche e vetrine i pastori, gli animali, e le tante piccole cose accessorie per dare forma al suo disegno, sarà, sotto certi aspetti un’operazione antistorica. Comunque.......
Ripetere quell’esperienza lontana è una impresa notevole, coraggiosa, e certo di non facile realizzazione. Una costruzione di grandi dimensioni da tenere ferma lì, fissa , sempre presente, premette valutazioni e scelte sicure, senza ripensamenti. Così, volendo riprovarci, come accadeva nel secolo d’oro, ancora oggi alle soglie del duemila, è indispensabile (se la concezione del "masso" non è dello stesso collezionista), l’incontro di due precise personalità: committente e regista. La consapevolezza di affidare l’esecuzione del progetto e la relativa edificazione, senza intromissioni, a una individualità eclettica, sospesa tra arte e mestiere, praticante la pittura, la scenografia, il teatro, e, non ultima, l’effettiva capacità organizzativa di amalgamare la complicata, molteplice realtà delle partecipazioni, per un’unica lettura d’insieme; è la necessaria premessa per la riuscita del lavoro.

Prof. Giuseppe Gaeta

storia